Ziemniaki
ITA
L’occhio, la mano e la nascita delle immagini immanenti.
Più volte, in una foresta, ho sentito che non ero io a guardare la foresta.
Ho sentito, certi giorni, che erano gli alberi che mi guardavano, che mi parlavano.
Io ero là in ascolto…. Credo che il pittore debba lasciarsi penetrare dall’universo
e non volerlo penetrare… Attendo di essere interiormente sommerso, sepolto.
Forse dipingo per nascere.
P.Klee
La visione del pittore è una nascita prolungata.
M. Merleau-Ponty
Quindi si tratterebbe di nascere al momento del sacrificio: quando la realtà visibile muore dentro la retina per risorgere nella trasmutata realtà d’immagine visibile. Il semplice passaggio dalla vita alla
carta, dalla realtà alla tela, dal mondo di fuori, radura o foresta, alla caverna-anima dentro, ha tenuto occupati i filosofi e gli studiosi d’arte che per secoli hanno cercato di sondare il misterioso rapporto tra soggetto e oggetto, tra io e mondo, tra fenomeno e noumeno.
Semplificando, potremmo dire che per molti secoli ha dominato la scena Platone con la sua teoria delle idee, seguito dal più pragmatico Aristotele. Le figure sulla parete sarebbero ombre di idee, l’anima si formerebbe false immagini copiando riproduzioni imperfette delle idee.
Mentre la cavallinità resterebbe la meta di un travalicamento sensoriale oltre il quale, come si legge nel Fedro, appare all’anima intelligente la verde prateria del noumeno, in terra il pittore-scenografo si occuperebbe di cose a mezza strada tra la bruta materia, informe e illogica, e la bella forma, armonica e geometricamente perfetta. Un cavallo dipinto insomma è per i Greci una macchina quasi perfetta, il tentativo imperfetto di somigliare strutturalmente e idealmente all’idea divina della cavallinità (ecco Aristotele che piega alla tecnologia e al metodo il platonismo e lo stoicismo). Come sappiano solo con il Cristianesimo, in particolare dopo il Trecento, San Francesco, Giotto e altre cose, l’idea del cavallo s’incarna assumendo su di sé la materialità della carne e con essa la morte, il peccato etc. Infatti come un cavallo nell’arena o in battaglia, o come un toro sull’ara, o il capro espiatorio, Cristo, il Dio in terra, verrà sacrificato e per liberare di nuovo l’idea dalla materia dovrà purificare la bassa orizzontalità dell’esserci. Pensando all’immagine, dunque, pur restando copia e imitazione del vero – cioè icona e riproduzione verosimile costruita sulla base di numeri e proporzioni ideali – l’artista accetta sempre di più la sfida
dell’incarnazione. Fino ad arrivare al Caravaggio che conia una mistica del realismo o viceversa un realismo metafisico messo in scena in allestimenti scenografici che rendono teatro vivente la visone del mistico. Il cavallo di Caravaggio – nella Pala Odescalchi ad esempio ma ancor di più in quella in Santa Maria del Popolo a Roma – non è né il cavallo platonico né quello al galoppo in una scena girata sotto la regia di John Ford. E’ qualcosa di più terreno e ad un tempo più ideale. Caravaggio forse per primo torna a instaurare una relazione primordiale, orizzontale eppure magica e apotropaica tra la realtà e l’immagine. Solo con l’invenzione del cinema si raggiungerà un simile “effetto” di realismo magico. Dopo le ricerche di Nietzsche sulla morte di Dio e quelle di Bataille sull’informe e la depénse, il velo di Maia che occultava l’origine antropologica dei segni e delle icone si è dissolto, lasciando intravedere quella che per certi versi è anche una disperante conquista dell’intelligenza. La storia, e così la fede nella ragione, è senza esito e la verità metafisica è l’informe stesso, il suo esserci materiale, in tutto immanente, che si genera e si dissolve incondizionatamente e senza ragione. L’uomo moderno si è ritrovato all’entrata di una caverna del paleolitico senza sapere la ragione della sua esistenza, se non quella materialistica dell’evoluzione, con la coscienza tuttavia di esserci e di avere due armi in più per difendersi e progredire, il linguaggio simbolico e lo strumento adatto.
Scrive Nietzsche: “La condizione generale degli esseri è a partire dall’eternità il caos, non per assenza di una necessità, ma per mancanza d’ordine, di struttura, di forma, di bellezza e di saggezza.” Di fatto la scoperta della cosiddetta “Cappella Sistina del paleolitico”, ovvero delle grotte di Lascuax, rappresentò, per alcuni intellettuali ed artisti del primo Novecento come Bataille e Picasso, la riprova di scelte radicali già fatte allorché si erano cominciati a guardare e studiare dal vero le produzioni artistiche primitive, arcaiche, esotiche. Probabilmente già il darvinismo, la scoperta di Altamira e il conseguente sviluppo delle scienze nuove, etnologia e antropologia, aveva determinato questa presa di coscienza sull’evoluzione artistica e sulla origine del simbolico, che di fatto si intuiva non poteva più essere ascritto all’occidente classico. Ma certo l’effetto di quei disegni e di quelle pitture realizzate sulla scabra parete di una grotta migliaia di anni prima obbligavano a datare diversamente la nascita dell’arte e trovare altre spiegazioni che la potessero giustificare. In un momento poi che l’Europa viveva l’esperienza inumana della seconda Guerra Mondiale, e lo spettro di una catastrofe apocalittica aleggiava sul vecchio continente. Non a caso saranno immagini di cavalli e uomini sacrificati, non ad un Dio ma alla irrazionalità efferata e totale dell’uomo, le icone più potenti dell’arte di questo tempo: Guernica da una parte e il cavallo fatto a pezzi nelle scene di un celebre romanzo di Remarque.
Nel frattempo, tra una distrazione e l’altra, l’uomo contemporaneo conobbe la forza realistica e idealizzatrice del proprio antenato preistorico. Rischiando di uscire dalla storia attraverso al porta
rinnegata del futuro (l’atomica) l’artista ritrovava una via d’uscita dallo storicismo e dalla sua teleologia accedendo alla pre-istoria dalla porta di quello che senz’altro fu tempio e dimora, casa e sacro recinto. E qui apparvero mandrie di cavalli, bufali e cacciatori, scene rituali e magiche, aneddoti di vita vissuta, una cronaca antecedente ogni immaginabile sistema di riproduzione e comunicazione. Il linguaggio della pittura insomma che funzionava e riproduceva a vario modo e titolo: registri e livelli diversi, da quello magico e rituale, a quello mnemonico, fino al piano affabulatorio o didattico pedagogico, infine perché non immaginare una funzione ludica e sociale. Un vero cinema per uno spazio pubblico. Certo non potevano bastare le spiegazioni idealistiche, le vecchie storie platoniche, in quanto davanti a quelle scene di caccia preistorica, a quelle figure di cervi e cavalli, a quelle sacre rappresentazioni di vita ferale, l’idea dell’arte veniva totalmente stravolta. Non bastavano né la metafisica né la teologia a spiegare il senso di sacralità primaria che si respirava in quel luogo senza luce e senza tempo, anzi al di là del tempo e della storia, in quanto quei disegni e quegli affreschi primitivi diventavo immediatamente l’immagine di una umanità possibile dopo e non solo prima della storia, addirittura probabile anche oltre la nostra genesi terrestre, da qualche altra parte dell’universo.
Quindi non aveva più alcun senso parlare di evoluzione storica, di progresso, di una civiltà artistica – quella europea-mediterranea – fondatrice tutte le altre. L’arte moderna scopriva una uova data di fondazione e nuove circostanze e tutto questo gettava le avanguardie indietro di centinaia di secoli. Il tempo storico saltava in aria e si determinava un vortice cronologico che risucchiava nell’intemporale del preistorico ogni successiva fase dell’evoluzione culturale. Allo stesso modo l’abisso di senso che quelle immagini rivelavano veniva immediatamente a riempirsi di qualche intellegibile verità. L’arte metteva in luce i propri meccanismi originari: la verità dell’impulso artistico, il bisogno quasi prelogico di esorcizzare lo spettacolo della vita, qualcosa che accomunava l’artista di quegli anni e quello preistorico, e ogni causa efficiente veniva a coincider con l’impulso erotico, con l’istinto di morte e con la pratica del sacrificio. A ragion veduta Bataille poteva dire che “avec l’intelligence de l’origine l’insignifiance de l’origine augmente ». L’Olimpo dell’arte poteva ridursi ad una semplice lotta di sopravvivenza, ad un corpo a corpo tra uomo e animale, tra uomo e natura, oppure a bruta tecnologia riproduttiva, e il sacro si spiegava immediatamente col sacrificio e con la scoperta dei riti di tumulazione, con lo sciamanesimo e la preparazione alla caccia, un primo tentativo di dialogare con gli elementi della terra e i fenomeni atmosferici, con la notte, il caos di una tempesta, il gelo e la siccità. Eppure Bataille scriverà anche: “Ces peintures, devant nous, sont miraculeuses, elles nous communiquent une émotion forte et intime. Mais elles sont d’autant plus inintelligibles. On nous dit de les rapporter aux incantations de chasseurs avides de tuer le gibier dont ils vivaient, mais ces figures nous émeuvent, tandis que cette avidité nous laisse indifférents. Si bien que cette beauté incomparable et la sympathie qu’elle éveille en nous laissent péniblement suspendu. »
E allora, non c’è distanza tra il pittore sciamano di Lascaux e Cézanne che afferma: “Quel che tento di tradurvi è più misterioso, s’aggroviglia alle radici stesse dell’essere, alla sorgente impalpabile delle sensazioni”, oppure tra questi, uno dentro la montagna e l’altro fuori, e la feroce esperienza psico-fisica di eros e morte che Picasso fa con la scoperta dell’arte primitiva. Ognuno di loro si è spinto fino al luogo di intersezione tra la nascita del linguaggio e la mera esistenza della vita degli esseri. In un punto che ha del miracoloso e dell’inspiegabile. Dove l’io penso o io vedo dell’artista, a differenza di quello dello scienziato e dell’homo faber, accetta di essere penetrato dall’universo e di non volerlo penetrare… di essere interiormente sommerso, sepolto. Forse così si spiega la poetica sciamanica di Paul Klee, che recupera una figurazione primitiva e primordiale (geologica e antropologica) per reintrodurla nel campo di lavoro dell’idealismo classico-romantico, quello delle misure auree e delle proporzioni ritmiche, dove le forme (naturali) e la figurazione (simbolica) parlano la stessa lingua costruita tanto sulla armonia della logica universale che del caos primigenio. “Più volte, in una foresta, ho sentito che non ero io a guardare la foresta. Ho sentito, certi giorni, che erano gli alberi che mi guardavano, che mi parlavano. Io ero là in ascolto…. Credo che il pittore debba lasciarsi penetrare dall’universo e non volerlo penetrare… Attendo di essere interiormente sommerso, sepolto. Forse dipingo per nascere”
La vita delle forme, le forme originali degli esseri sembrano collegare l’esistenza e la pratica del pittore di Lascuax, e quella di Cézanne, Picasso e Klee, e a suo modo lo sciamanesimo di Beuys e quello di Pollock. A tutte queste si accosta poi la vita e l’arte del poeta cinese che, a fianco delle sue liriche vergate in verticale su una raffinata carta di riso, disegna con leggerezza e somma precisione la figura di un cavallo, quella di un fiore, un rametto di foglie o una montagna immersa nell’umida nebbia d’autunno. E’ sempre la stessa vita delle forme che sommerge l’artista, che infatti tende a scomparire in essa e nell’esecuzione della propria opera. Lo dice anche Pollock, che
spiega in questi termini il suo lavoro, la sua danza, l’immersione totale in quel luogo selvaggio e caotico che è la superficie di una sua tela: “Quando sono nel mio dipinto non ho coscienza di ciò che sto facendo”. In un’altra occasione dirà addirittura “Io sono la natura”, evocando quello sregolamento dei sensi che Rimbaud ha descritto nella sua famosa lettera quando senza mezzi termini dice “Je est un autre”. (lettera del 15 maggio 1871 a Paul Demeny)
L’artista insomma che non rappresenta ma vuole essere l’altro: tornare a dire con la voce dell’animale la natura, e con la voce degli alberi il cervo. Qualcosa di più profondo e abissale dell’immedesimazione e della trasfigurazione. Un viaggio sciamanico dentro la vita degli esseri.
Così mentre la fine dell’idealismo ha schiacciato l’uomo planetario in un materialismo senza speranza, in preda al furore tecnologico e alla vanitas scientifica, c’è sempre questa pittura che, superato lo schoc della rivelazione, ha scoperto di essere sola al mondo con la sua emozione e la sua sensazione; sperimentando l’incondizionato miracolo del visibile. Quel miracoloso cioè che Merleau-Ponty definisce una nascita prolungata. Nascita poi continuamente differita nel segno o disegno figurativo, la cui esistenza si storicizza come linguaggio grazie anche all’utensile con il quale il pittore-sciamano si separa programmaticamente dalla sfera dell’inumano. Utensile che accomuna la pratica dell’artista a quella dello sciamano-sacerdote. « L’opération magique […] témoigne de l’obstination dans la recherche du résultat, mais elle annonce un primat dans l’ordre des valeurs : celui du sacré sur le profane, des désordres du désir sur le calcul de la raison, de
la chance sur l’humble mérite et de la fin sur les moyens”.
Riproduzione e magia partecipano di questa miracolosa nascita che Bataille dirà figlia di Eros e Thanatos liberando la letteratura e l’arte da ogni dipendenza di natura teologica.
We often belittle, call childish, this need to be wonderstruck…
but we set right off again in search of the wonderfull
Georges Bataille.
Dipingere dopo la scoperta dell’eterno ritorno e dell’informe può significare anche questo: procedere nel non tempo, in una direzione che non coincide né con il ritorno al passato (leggi la storia) né con la fuga nel futuro dell’utopia. In questo senso la pittura preistorica, quella dei bambini, o dei folli, al di là dello scarabocchio e del informe, sembrano condividere questa sorta di a-temporalità. La logica intemporale della pittura, secondo questa linea di pensiero procederebbe dall’alba dei tempi con istintualità prometeica e di scoperta in scoperta giungerebbe all’esplorazione luminosa e non nouminosa dell’origine del segno-immagine: ad una reiterazione magica e apotropaica oltre che simbolica e operativa della scintilla figurale, (la frizione ctonia della pietra sulla pietra) la nascita della mimesis che tale e quale verrebbe traslata o differita nel continuum dello spazio-tempo artistico. In quel continuum dello spazio della superficie (parete, carta, tela,soffitto, pavimento) che è spazio, ma anche tempo e luogo. E nel continuum farsi e disfarsi geologico del segno che data la durata dell’emersione dell’immagine bidimensionale dallo s-fondo uni-dimensionale del linguaggio pre-umano. Un tempo questo non lineare né crescente che contempla il gesto della mano del pittore di Lascaux e quella di un bambino che chino su di un grande foglio di carta prova ad esercitare il suo domino sul mondo abissale del figurale.
Grande, quasi infinita, la dimensione continua del disegno, originale e iniziatico, è quella dimensione dell’esserci planetario che sovrasta la storia sociale dell’umanità e la annega nel proprio unicuum oceanico. Qui, tra giorni di tempesta e di bonaccia, s’incontra dondolare a pelo
della superficie la zattera della follia. Si riconoscono i disegni e i segni, della diaspora dell’io e del cogito già da sempre destinati a perdersi lontano dalla patria del linguaggio e dell’esserci. Segni e
disegni che s’interrogano e c’interrogano, allucinati e muti, con l’espressione tipica dei naufraghi appena riemersi dal fondo dell’abisso A riprova del fatto che l’arte è un cannocchiale rovesciato sull’inizio della figurazione, sulla pre-istoria, a sfondare il “grund” del linguaggio fino al limite oscuro e spaventevole dell’inumano animale. Tra noi e questo spaventoso abisso dei fondamenti lievita come sottile increspatura della superficie la carta, che appena si solleva come una pelle: sacro recinto dell’epifania del simbolico e del mimetico che ancora ha la forma e la funzione della superficie della caverna è quel tanto di spazialità che è data all’uomo per ancorare a qualcosa i suoi segni prima che la profondità lo sommerga.
Il linguaggio figurativo di Gosia Turzeniecka, nata a Opoczno (Polonia) nel 1974, discende da questa genealogia di eventi storici e sembra ripercorrere le tappe salienti di una sperimentazione sul segno e l’icona che da almeno cento anni hanno radicalmente trasformato il concetto e la pratica di arte figurativa. Le sue immagini sono infatti il risultato di quel ritorno ad una figurazione primordiale, essenziale, ma altrettanto incarnata nel naturalismo, che coniuga i mondi distanti di un raffinato pittore cinese, come d’altronde è stato Matisse, che usa la linea per calligrafare anatomie e movimenti, e lo sciamano Pollock, che usa invece la linea come scaricamento di una tensione prometeica. E non è neppure sbagliato vedervi una suggestione di quella pratica del disegno che accomuna Beuys e Klee, entrambi dediti all’investigazione per immersione sciamanica della sfera del primordiale naturale. Oppure a tratti la scrittura calligrafica e musicale travalica quella figurativa e iconica e allora il segno apre il piano dell’immagine su quello della scrittura musicale, e si leggono nel paesaggio (la vasta radura della carta) una serie di armonie puntiformi, come se esseri e animali si esprimessero figurativamente piuttosto con le note del proprio canto e l’armonia della propria ondeggiante spazialità che con la mimesi idealistica o la riproduzione figurativa. Una mimesi allora calligrafica e una calligrafia mimetica che persegue la stilizzazione fino al punto equilibrato dell’arte orientale, la sola che arriva dopo esercizio zen all’annullamento della dialettica astratto-figurativo, vuoto-pieno, fisico-spirituale, materiale-immateriale, finito-infinito. Perché qui come sapeva bene il maestro di pittura cinese, celebrato in un famoso testo sull’arte del Tè, si tratta solo di osservare, contemplare e perdersi nella natura di un pesce come di un uccello o di un bisonte, in attesa che l’io si faccia altro, fino a essere trasmutato interiormente e totalmente in quella creatura. Solo a quel punto dopo decenni l’imperatore o il collezionista riceverà l’agognato disegno. Come scrive Ivan Quaroni la giovane artista: “Con brevi colpi di pennello, tanto veloci quanto sapienti, cattura la meraviglia estatica del mondo, il suo incessante dibattersi tra istanti successivi. Nei suoi disegni, ogni attimo, ogni movimento di quella sublime danza che è la vita, è indagato attraverso uno sguardo attento, abituato a scrutare tra le pieghe del presente con rapidità e precisione.”. E quelli che ci sembrano disegni e quadri in realtà forse sono quasi degli haiku. Perché come quelle forme poetiche le opere di Gosia ambiscono al massimo della leggerezza e della precisione, della profondità e della sospensione. E come gli haiku certi disegni a punta di pennello non nascono con l’effrazione del senso, come direbbe Roland Barthes, ma semplicemente lasciandolo cadere il senso come i fiori a primavera.
“L’arte occidentale – scrive Barthes in L’impero dei segni – trasforma l’impressione in descrizione. Lo haiku non descrive mai: la sua arte è anti-descrittiva, nella misura in cui ogni stadio della cosa è
immediatamente, caparbiamente, vittoriosamente trasformato in una fragile essenza d’apparizione: istante letteralmente intrattenibile, in cui la cosa, pur non essendo già altro che linguaggio, diventa parola, passa da un linguaggio ad un altro, e si costituisce come il ricordo di questo futuro, e per ciò stesso anteriore….la descrizione, genere occidentale, ha il suo corrispettivo nella contemplazione; lo haiku, al contrario, è articolato su una metafisica che non ha soggetto né Dio, analogo al Mu buddista, al satori zen …al risveglio di fronte all’evento, scelta della cosa come accadimento e non come sostanza.”
Leggerezza intrattenibile, forma e vita intrattenibile, qualcosa che ci libera dalla pesante e gravosa paura della morte, così ferocemente avvertita da Bataille. Restituendoci l’istante della meravigliosa scoperta della vita così come appare nell’effimera sostanza del visibile o quando affiora, intoccabile realtà, sulla pelle inconsustanziale della carta di riso.
“Come è ammirevole
colui che pensa:
la vita è effimera
vedendo un lampo”
Sergio Risaliti
Fiesole, Settembre 2007
ENG
The eye, the hand and the birth of immanent images
Many times, in a forest, I have felt that it was not I who was looking at the forest.
I have felt on some occasions that it was the trees that were looking at me, talking to me.
I was there, listening…. I believe a painter must let himself be penetrated by the universe,
not want to penetrate it himself… I wait for interior submersion, burial.
Perhaps I paint in order to be born.
Paul Klee
A painter’s vision is a prolonged birth.
M. Merleau-Ponty
In this sense therefore, birth takes place at the moment of sacrifice: when visible reality dies on the retina, to reappear in the transmutation of reality in the visible image. The simple step from life to paper, from reality to canvas, from the world of outside, glade or forest, to the inner cave-soul: it has kept philosophers and art experts occupied for centuries, trying to probe the mysterious relationship between subject and object, between “I” and the world, between phenomenon and noumenon.
To simplify, we might say that for many centuries Plato dominated the scene with his theory on ideas, followed by the more pragmatic Aristotle. Figures on walls would thus be shadows of ideas, the mind would form false images for itself by copying imperfect reproductions of the ideas.
While the concept linked to “horse-ness” is the aim of a sensorial crossing (beyond which, as we find in Phaedrus, the green plains of noumenon appear to the intelligent soul), on the ground the painter-designer is taken up with things half-way between brutal material – formless and illogical – and beautiful form – harmonious and geometrically perfect. For the Greeks a painted horse was evidently an almost-perfect machine, the imperfect attempt to imitate structurally and ideally the idea of divine “horse-ness” (and here Aristotle bends Platonism and Stoicism to technology and method). As we know it was only with Christianity, in particular after the 14thC, St Francis, Giotto and others, that the idea of the horse is incarnated, taking on the substance of flesh and with it that of death, sin, and so on. Thus, like a horse in the arena or in battle, like a bull on the altar or a scapegoat, Christ – the God on earth – would be sacrificed; and to liberate the idea from the substance again, he had to purify the low horizontality of being there. Referring to the image therefore, while it is still a copy and imitation of reality – an icon and realistic reproduction constructed on the basis of ideal numbers and proportions – the artist is more than ever prepared to accept the challenge of incarnation. Up to Caravaggio, who coins a mystic art of realism, or vice versa a metaphysical realism set in scenery which makes the vision of what is mystical into a living theatre. Caravaggio’s horse – in the Odescalchi altarpiece, for example, but also in that of Santa Maria del Popolo in Rome – is neither a platonic horse nor a galloping one from some John Huston film. It is something more earthly yet at the same time more ideal. Perhaps Caravaggio was the first to return to establish a primordial relationship, horizontal but also magical and anthropic, between reality and image. Only with the invention of cinema is a similar “effect” of magical realism achieved. After Nietzsche’s exploration of the death of God and those of Bataille on lack of form, and dépense, the veil of Maia which concealed the anthropological origin of signs and icons has disintegrated, allowing a view of what is also in some ways a despairing conquest of intelligence. History, and similarly faith in reason, is without an outcome, and metaphysical truth is formlessness itself, it is its material being, immanent in every way, which generates itself and disintegrates unconditionally and without reason. Modern man has found himself at the mouth of a palaeolithic cave without knowing the reason for his existence, apart from the materialistic one of evolution, but aware nevertheless of being there and of possessing two more weapons for defending himself and progressing: symbolic language and the appropriate tool. Nietzsche writes: “The general condition of beings from eternity onwards is chaos, not because of a lack of necessity, but for a lack of order, structure, form, beauty and wisdom.” Indeed the discovery of the so-called “Palaeolithic Sistine Chapel”, i.e. the caves of Lascaux, represented for some intellectuals and artists of the early 20thC like Bataille and Picasso the confirmation of radical choices already made when they had begun to look at and study the originals of primitive, archaic, exotic artistic production. Probably Darwinism, along with the discovery of Altamira and the consequent development of new sciences, ethnology and anthropology, had already determined this progressive awareness of artistic evolution and the origin of symbolism, which by then were suspected of not having originated in western classicism. The effect of those drawings and those paintings, created on the rough wall of a cave thousands of years earlier, was to force society to give a different date for the birth of art, and to find other explanations for its justification. And this at a time when Europe was living through the inhuman experience of the second World War, when the ghost of an apocalyptic catastrophe hovered over the old continent. It is no coincidence that the images of horses and men sacrificed, not to a God but to the ferocious and total irrationality of man, are the most powerful icons of the art of this era: Guernica on the one hand, on the other the dismembered horse in one of the scenes of Rémarque’s famous novel.
In the meantime, between one distraction and another, contemporary man became familiar with the realistic and idealistic strength of his prehistoric ancestor. Given the risk of stepping out of history through the renegade door of the future (atomic), the artist found another way out of historicism and its teleology, through accessing prehistory by the door of that which was undoubtedly its temple and home, house and sacred enclosure. And here there were herds of horses, buffalo and hunters, scenes of ritual and magic, anecdotes of life’s experience, a chronicle which preceded any imaginable system of reproduction and communication. The language of painting, therefore, functioning and reproducing in various ways: different pitches and levels, from magical/ritual to mnemonic, from a story-telling or didactic-pedagogic role to conceivably even a playing or social function.
A real cinema for a public space. Certainly the idealistic explanations, the old platonic stories, were no longer adequate: the idea of art was totally up-turned when confronted with those scenes of prehistoric hunting, those figures of deer and horses, those sacred representations of feral life. Neither metaphysics nor theology were enough to explain the sense of primary sacredness which was to be breathed in that lightless, timeless place, or rather place beyond time and history, since those drawings and those primitive frescoes immediately became the image of a possible human existence not only before but also after history; even a probable existence, beyond our terrestrial genesis, in some other part of the universe.
So there was really no point any more in talking about historical evolution, progress, an artistic civilisation – European-Mediterranean – founder of all others. Modern art had discovered a new date for its foundation and new circumstances; all this bowled the avant-garde backwards by hundreds of centuries. Historical time was blown apart and a chronological vortex was created which sucked back down into prehistory every successive phase of cultural evolution. At the same time the abyss of sense which those images revealed was immediately filled up with some intelligible truth. Art shed light on its own originating mechanisms: the truth of artistic impulse, the almost pre-logical need to exorcise the spectacle of life, that which the artist of those years had in common with the artist of prehistory, and every efficient cause happened to coincide with the impulse of the erotic, the instinct of death and the practice of sacrifice. In hindsight Bataille could say that “avec l’intelligence de l’origine l’insignifiance de l’origine augmente.” The Olympus of art could be reduced to a mere struggle for survival, to a man-to-beast combat or a contest between man and nature, or else to brute reproductive technology, and the sacred could be explained straight away with sacrifice and the discovery of burial rites, shamanism and preparation for the hunt, an early attempt at dialogue with the elements of the earth and atmospheric phenomena, with the night, the chaos of a storm, frost or drought. But Bataille also wrote: “Ces peintures, devant nous, sont miraculeuses, elles nous communiquent une émotion forte et intime. Mais elles sont d’autant plus inintelligibles. On nous dit de les rapporter aux incantations de chasseurs avides de tuer le gibier dont ils vivaient, mais ces figures nous émeuvent, tandis que cette avidité nous laisse indifférents. Si bien que cette beauté incomparable et la sympathie qu’elle éveille en nous laissent péniblement suspendu.”
There is therefore no gap at all between the shaman painter of Lascaux and Cézanne who states:
“What I attempt to translate for you is more mysterious, entangled around the very roots of being, of the impalpable source of sensations,” or between these two, one inside the mountain and the other outside, and the ferocious psycho-physical experience of eros and death which Picasso had on discovering primitive art. Each of these has pushed on to the point of intersection between the birth of language and the mere existence of life of beings. A point of the miraculous and the inexplicable. Where the artist’s concept of “I think” and “I see”, in contrast with those of the scientist and of homo faber, accept being penetrated by the universe and accept not wanting to penetrate it themselves…. Being internally submerged, buried. Perhaps in this way we can explain the shaman-like poetics of Paul Klee, who reclaims a primitive and primordial figuration (geological and anthropological), then reintroduces it into the field of classical-romantic idealism in his work, that of the golden section dimensions, rhythmic proportions, where the (natural) forms and the (symbolic) figuration speak the same language, built as much on the harmony of universal logic as on primitive chaos. “Many times, in a forest, I have felt that it was not I who was looking at the forest. I have felt on some occasions that it was the trees that were looking at me, talking to me. I was there, listening…. I believe a painter must let himself be penetrated by the universe, not want to penetrate it himself… I wait for interior submersion, burial. Perhaps I paint in order to be born.”
The life of forms, the original forms of beings, seem to link the existence and the practice of the painter of Lascaux, with that of Cézanne, Picasso and Klee, and in his own way with the shamanism of Beuys and that of Pollock. Alongside all of these come the life and art of the Chinese poet: beside his lyrical vertical lines on fine rice paper he draws with the lightest stroke and greatest precision the figure of a horse, that of a flower, a sprig of leaves or a mountain immersed in the damp autumn fog. Here again it is the same life of the forms that submerges the artist, who tends to disappear into it while carrying out his work. Pollock says the same thing when he explains his work in these terms, his dance, the total immersion in that wild and chaotic place, the surface of his canvases: “When I am in my painting, I’m not aware of what I’m doing.” On another occasion he even said “I am nature”, evoking that disorder of the senses which Rimbaud described in his famous letter when he stated in no uncertain terms that “Je est un autre”. (letter of 15 May 1871 to Paul Demeny)
So the artist does not want to represent but to be the other: to return to expressing nature with the voice of an animal, and expressing a deer with the voice of the trees. Something more profound and abyssal than identifying with something, or transfiguration. A shaman voyage into the lives of beings.
Therefore while the end of idealism has crushed planetary man into hopeless materialism, prey to the frenzy of technology and scientific vanitas, there remains this painting, which after the shock of revelation has discovered its uniqueness in the world, with its emotion and feeling; experimenting with the undiluted miracle of the visible. That miraculous which Merleau-Ponty defines a prolonged birth. A birth which is continuously deferred in figurative signs or drawings, whose existence is historicised as a language thanks partly to the tool with which the shaman-painter was programmatically separated from the sphere of the inhuman. A tool which united the practice of the artist with that of the shaman-priest. “L’opération magique […] témoigne de l’obstination dans la recherche du résultat, mais elle annonce un primat dans l’ordre des valeurs : celui du sacré sur le profane, des désordres du désir sur le calcul de la raison, de la chance sur l’humble mérite et de la fin sur les moyens”.
Reproduction and magic take part in this miraculous birth, which Bataille calls daughter of Eros and Thanatos, liberating literature and art from any dependence of a theological nature.
We often belittle, call childish, this need to be wonderstruck…
but we set right off again in search of the wonderful.
Georges Bataille.
To paint after the discovery of eternal recurrence and the concept of formlessness might mean this too: to proceed through non-time, in a direction which neither coincides with a return to the past (read history) nor with a flight into a future utopia. In this sense prehistoric painting – and that of children, or of madmen, apart from shapeless scribbles – seem to share this sort of timelessness. The timeless logic of painting according to this strain of thought stems from the dawn of time with prometheic instinct and from one discovery to another leads to luminous rather than nouminous exploration of the origin of sign-image: to a magic, apotropaic as well as symbolic and operative reiteration of the figural spark (the ctonia friction of stone against stone), the birth of mimesis which would then be transferred or deferred just at it was into the continuum of the artist’s space and time – into that continuum of space of surfaces (walls, paper, canvas, ceiling, floor) which is space but is also time and place. And in this continuum, the geological forming and deforming of the sign dates the duration of the emerging of the two-dimensional image from the single dimension of the background of pre-human language. This concept of time, neither linear nor expanding, which contemplates the gesture of the hand of the Lascaux artist and that of a child bending over a great sheet of paper, tries to exert its dominion over the abyssal world of the symbolic. The great, almost infinite continuous size of the drawing, in its originality and initiative, is that dimension of planetary being there which dominates over the social history of humanity and drowns it in its own oceanic oneness. Here between days of storm and calm, drifting and bobbing on the surface, one meets the raft of madness. The drawings and signs can be recognised, the Diaspora of that sense of self and of cogito, ever destined to be lost far from the home of language and of being there. They are signs and drawings that question themselves and us, hallucinated and mute, with the typical expression of ship-wrecked souls who have just re-emerged from the depths of an abyss. This is a further indication that art is like looking through a telescope from the wrong end onto the beginning of figuration, onto prehistory; breaking through the “grund” of language into the obscure and frightening limits of the inhuman, the animal. Rising, as a fine crease on the surface, between us and this fearful abyss of our foundations, is paper, like a slightly peeling skin: sacred enclosure of symbolic and mimetic manifestation which still has the form and the function of the cave’s surface. Paper is the spatial dimension with which man is equipped, so that he can anchor his signs onto something before he is finally swallowed into the depths.